Davood Abbasi, un persiano dal cuore siciliano

di Leonardo Lodato. Fonte: La Sicilia

Sono 3.230, poco più di 4mila in automobile, i chilometri che dividono Catania (Italia) da Teheran (Iran). Ma al di là delle distanze “fisiche”, cosa può unire, ma anche tenere a debita distanza queste due città? Difficile da dire senza avere prima studiato storia e tradizione di due popoli così lontani eppure così vicini. Tanto vicini, se ne parli con chi vive e ha vissuto le due realtà, da ritrovarti improvvisamente immerso in una nuvola di sensazioni da Mille e una notte, dove religioni, paesaggi e sapori si mischiano, interagiscono, danno vita a nuove dominazioni sensoriali. Ma per capire meglio i punti in comune tra L’Italia e l’Iran e, meglio ancora, tra la Sicilia e la terra degli Scià, non potevamo che rivolgerci ad un vero esperto. Uno scienziato, giornalista, con una grande voglia di trasmettere agli altri le proprie conoscenze ed esperienze: Davood Abbasi. Un collega in grado di sollecitare e risvegliare la nostra curiosità.

Innanzitutto mi farebbe piacere presentarla ai nostri lettori. Chi è Davood Abbasi?

«Il più siciliano tra i persiani, ed il più persiano tra i siciliani. Forse l’ultimo sopravvissuto di una tribù estinta, ma comunque una persona che non ha perso la speranza nell’amore e nel bene; qualcuno che spera che proprio questo amore e questo amare lo possa salvare e possa dargli un destino felice. In un senso accademico, ho conseguito una laurea, un master ed un PhD in ingegneria aerospaziale; la mia specializzazione è stata controllo e dinamica di volo. Nello specifico, la messa a punto di un nuovo metodo per controllare il rientro sulla terra di una navicella spaziale con a bordo esseri umani. Avrebbe dovuto essere un programma nazionale dell’Iran, che però è stato sospeso nel 2013, con mia grande delusione. Dal mio rientro in Iran (1996) ho iniziato a collaborare con la radio italiana dell’Irib (la radiotelevisione iraniana), dove mi sono praticamente fatto le ossa come giornalista, frequentando corsi inerenti al tema e seguendo le notizie dei diversi conflitti che hanno caratterizzato questi ultimi 23 anni, a partire da quello in Jugoslavia. Dal giugno 2016 sono altresì corrispondente dell’Agi a Teheran. Ho tradotto finora tre libri dall’italiano al persiano ed ho riunito in un volume la traduzione di una selezione di antiche fiabe persiane sufi, pubblicato in Iran in lingua italiana e intitolato “Fiabe persiane”».

Lei ha vissuto per 13 anni in Italia, molti di questi trascorsi a Catania. Il popolo siciliano è un popolo molto particolare, segnato da una lunga serie di dominazioni. Ci può descrivere la “sua” Catania? In che periodo ci ha vissuto?

«La “mia” Catania risveglia in me dolcissimi ricordi dell’infanzia; ricordo persone accoglienti ed affettuose, una città che era culla di cultura e di dialogo tra le civiltà, un’isola piena di bellezza, di sole e di profumi, ma soprattutto un mare che io amavo a dismisura e con cui credo di avere un qualche misterioso legame, anche perché mi manca davvero tanto. Scrivendo “mia Catania”, poco fa, mi è venuto un nodo in gola, anche perché non mi ero mai sentito autorizzato ad usare questo termine; forse piangere non è nobile per un uomo, ma ora lo farei, anche perché Catania rimarrà in eterno nel mio cuore. La nascita e la crescita in un luogo dove la virtù era la cultura ed il sapere, è un qualcosa per il quale ho sempre ringraziato il Signore. Potrò mai dimenticare le suore dell’asilo, che dolcemente mi insegnarono a pregare? Ricordo che non sapevano che io fossi di una famiglia musulmana, e mi avevano insegnato ad arte l’Ave Maria ed il Padre Nostro. Un giorno, all’età di 5 anni, rimproverai i miei genitori per non aver pregato prima del pranzo e quando loro mi invitarono a mostrarglielo, al mio segno della croce, li vidi pietrificati. Andò bene perché mia madre mi spiegò che loro pregavano in un’altra maniera, ed io, al contrario dei miei cugini iraniani che erano restii a farlo, iniziai in tenera età: tutto per merito delle suore. Quanto vorrei tornare indietro per abbracciare un’altra volta il signor Cifali, un ufficiale in congedo che aveva perso la gamba nella guerra in Libia (quindi combattendo contro dei musulmani), e che pur sapendo della nostra fede, si offrì come mio maestro di italiano, anche perché nei primi anni, i miei genitori non erano in grado di aiutarmi con lo studio. Mi ricordo tanta gentilezza, tanto affetto, il fruttivendolo davanti a casa nostra, che mi fermava sempre per offrirmi qualcosa da mangiare, un signore del nostro condominio che mi comprava i cannoli alla ricotta. Non abbiamo mai trascorso un capodanno da soli, anche se non avevamo parenti; gli amici italiani dicevano che trascorrere soli le feste era quasi un sacrilegio: tavolate infinite di siciliani allegri, come se non ci fosse un domani! Mi viene ancora da ridere pensando a quando mio padre portava al supermercato tutte le bottiglie di spumante che ci regalavano gli amici (che ritenevano che un musulmano potesse bere alcool a capodanno) per scambiarle con la Coca Cola. La Catania di quegli anni (tra l’83 ed il 96) era bellissima, verso il lungomare si respirava sempre aria di festa, mi ricordo una gelateria immensa in piazza Europa, e i bambini che stavan sempre lì a giocare».

Ritiene che ci possano essere dei punti in comune tra l’Iran e la Sicilia? Se sì, quali?

«Secondo me, in generale, ci sono tantissimi punti in comune tra il mondo cristiano e quello islamico; adoriamo un unico Dio e lo chiamiamo con nomi diversi e osservare ciò certe volte, per me che amo entrambi i mondi, è davvero doloroso. Il pistacchio, lo zafferano, le melanzane, la voglia di bellezza e l’impegno per crearla e diffonderla accomunano siciliani e iraniani. Conosco anche coppie miste e devo dire che sono stati matrimoni di successo; altro segno, per me, della vicinanza tra i due popoli. Se dovessi citare un qualcosa in comune del carattere, dovrei parlare della dignità e dell’educazione, dell’orgoglio, dell’ospitalità».

Lei lavora per l’Irib e per l’Agi. Quindi conosce bene il mondo del giornalismo. Spesso si dice che l’informazione in Iran come in altri Paesi, viene filtrata e non arriva all’opinione pubblica in maniera limpida. Ritiene che sia vero o si tratta soltanto di un luogo comune?

«Non si può dare una risposta al cento per cento. Nel senso che in nessun Paese al mondo l’informazione viene divulgata al completo e senza filtri; non a caso nazioni come gli Stati Uniti hanno l’abitudine di desecretare alcune questioni sensibili dopo 50 anni. Sinceramente non ritengo che l’informazione in Iran venga filtrata più dei Paesi occidentali. È doveroso ricordare che negli ultimi anni, la presenza dei social ha contribuito in maniera seria ad avere un’informazione migliore. L’Iran, con oltre 40 milioni di internauti, è il primo paese del Medioriente in questo senso».

Quali sono le differenze tra l’informazione in Iran e in Italia?

«Bisogna ammettere che in Italia c’è più libertà di attaccare, aggredire e criticare aspramente la maggior parte delle realtà politiche (non tutte), mentre in Iran, forse per una questione di diversità culturale, le critiche, soprattutto contro le massime autorità religiose, non sono ammesse. Un’altra differenza che si nota immediatamente è la grande attenzione che i media iraniani riservano agli esteri ed alla politica internazionale, mentre questi argomenti suscitano minore interesse tra gli italiani che sono il più delle volte concentrati sulle loro questioni interne».

Pensa che le informazioni che arrivano in Europa sull’Iran siano in qualche modo “pilotate”?

«Lo sono in una maniera mostruosa. Purtroppo molti dei potenti del nostro mondo ripongono i propri interessi nell’odio, nell’acquisto di armi, nelle sanzioni, nella guerra; per questo ci raccontano falsità sugli altri, su chi è diverso e impediscono quella pace che sarebbe il naturale sviluppo delle interazioni e degli scambi tra i popoli».

Da operatore turistico, quali sono i luoghi che, a suo avviso, meritano di essere visitati in Iran?

«Non basterebbe un libro per rispondere a questa domanda. Quali sono i posti da visitare in Italia, chiedo io? I due Paesi sono così ricchi che è riduttivo fare un qualsiasi elenco. Ma posso citare le mete più visitate: Persepoli, la città di Isfahan, il deserto di Lut vicino Kerman, il centro storico di Yazd con le torri del vento ed i Qanat, Teheran con il suo museo dei gioielli, le isole del Golfo Persico, Tabriz con il suo bazaar infinito, Shiraz e i suoi giardini fioriti».

In che modo pensa che sia possibile incrementare i flussi turistici dall’Italia verso l’Iran e viceversa?

«Con un lavoro di qualità da entrambe le parti; come eredi di due grandi civiltà (le uniche due che un tempo esistevano), Teheran e Roma devono lavorare sulla cultura ma soprattutto devono superare i luoghi comuni, i pregiudizi e le paure infondate. Bisogna fare in modo che gli italiani apprendano che l’Iran è il Paese più sicuro del Medioriente e uno dei più accoglienti al mondo; gli iraniani devono informarsi correttamente e capire che l’Italia non è sinonimo di mafia e delinquenza e che può offrire ciò che altrove non è possibile trovare».